Il Golden Power spiegato dai servizi segreti

Il Golden Power spiegato dai servizi segreti

12. 01. 2020 Off Di admin

Nel 2015 una piccola società modenese, la Sir, fu acquisita per il 90% da Wolong, un colosso cinese della robotica. Un’operazione di scarsissima importanza, si sarebbe detto all’epoca, ma che quasi fece scattare il meccanismo del Golden Power, entrato in vigore appena 3 anni prima, nel 2012. Perché la Sir è leader nell’integrazione delle tecnologie robotiche nei sistemi produttivi del settore automobilistico, una cosa che, all’alba dell’era del 5G, si avvia a diventare la nostra quotidianità.

Due anni dopo il governo avrebbe esercitato questo ‘potere speciale’ per fermare la scalata di Vivendi a Tim e dopo altri due – nel 2019 – questo strumento sarebbe diventato familiare a tutti perché applicato alla tecnologia cinese sul fronte del 5G nel bel mezzo della guerra commerciale tra gi Stati Uniti e la Cina.

Per fare il punto sul Golden Power – spiegandone origini, normativa e limiti – il Dis, il sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica (in buona sostanza i servizi segreti), ha realizzato un volume che raccoglie gli interventi di sedici esperti e legislatori. 

Il Golden Power, ricorda il direttore del Dis, Gennaro Vecchione, “è nato in risposta a un impellenza contingente: rendere compatibile con il diritto europeo la disciplina nazionale di poteri speciali del governo per scongiurare una infrazione” delle norme Ue.

“L’estensione della disciplina ai contratti relativi alle reti 5G è la prova che serve agire secondo una visione organica” aggiunge, adattando questo potere speciale alle nuove esigenze e ai nuovi scenari perché “la sicurezza nazionale non può mai essere data per scontata o per acquisita. È una conquista quotidiana e impone che la guardia sia sempre alta e lo sguardo sia sempre lungo”.

Il Golden Power ha di fatto superato lo strumento della Golden Share sostituendo le partecipazioni azionarie munite di prerogative speciali con un potere di intervento dello Stato su specifiche operazioni in settori strategici, come le infrastrutture e le tecnologie di telecomunicazione. 

L’obiettivo è contenere – se non fermare – quelle campagne predatorie condotte da fondi sovrani o nazioni che puntano a impossessarsi di tecnologie chiave in settori strategici comprando le società che li producono. È, insomma, il pulsante di ‘stop‘ da premere nel caso di acquisto a qualsiasi titolo di partecipazioni di imprese che svolgono attività di rilevanza strategica o ritenute significative nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni. Non sempre, ovviamente, perché significherebbe alterare i meccanismi su cui si fonda il libero mercato, ma in caso di minaccia grave alla sicurezza e al funzionamento delle reti.

Nel marzo del 2019, si ricorda nel volume, è stato esteso per decreto legge l’ambito di applicazione della disciplina Golden Power all’acquisizione di beni e servizi di tecnologia 5G, ma è un cammino iniziato molto tempo prima, in Germania, quando capitali cinesi si assicurarono per 4,5 miliardi di euro il controllo di Kuka, un colosso della robotica che Berlino si vide scippare dalle mani senza poter fare praticamente nulla. 

Da allora si è registrato un generale consenso sulla necessità di superare la concezione statica dell’interesse nazionale, intesa come mera difesa delle tipiche prerogative dello Stato sovrano, in favore di una concezione dinamica, ossia come azioni da adottare da parte di un Paese come l’Italia per meglio competere a livello globale.

Come ha detto l’ex presidente della commissione Ue, Jean-Claude Juncker, l’Europa deve sempre difendere i suoi interessi strategici e se le società estere di proprietà statale intendono acquistare un porto europeo o parte di una nostra infrastruttura energetica o un’azienda del settore delle tecnologie di difesa, deve poterlo fare solo in modo trasparente, con le dovute valutazioni e discussioni.

Ma su cosa si può esercitare il Golden Power? Il rapporto del Dis è chiaro anche in questo: infrastrutture critiche o sensibili che vanno dall’immagazzinamento e gestione dati; infrastrutture finanziarie; tecnologie critiche (compresa l’intelligenza artificiale e la robotica); i semiconduttori; la tecnologia spaziale o nucleare e la sicurezza dell’approvvigionamento di input critici per i fattori produttivi.

La Commissione europea ha evidenziato come, a dispetto della loro natura di principio generale, la libera circolazione dei capitali e l’apertura dell’economia europea all’investimento diretto straniero non sono regole senza eccezioni in quanto possono trovare limite, ad esempio, tanto per esigenze di sicurezza, di ordine pubblico e per motivi imperativi di ordine generale. E non è un caso se tra il 2016 e il 2017, quando si è registrato un nuovo allarme in relazione agli investimenti diretti effettuati dai fondi sovrani e dalla Cina, si è cominciato a parlare con maggiore frequenza di Golden Power. 

Nel 2016, per la prima volta nella storia moderna, il valore degli investimenti esteri diretti cinesi in Europa ha superato quello di investimenti diretti effettuati dai Paesi dell’Ue in Cina. E nel 2017 in Cina si è consolidata una dirigenza politica che ha conseguito il pieno controllo del Paese grazie alla perdurante regia statale nelle attività produttive e finanziarie. Al centro è stato inserito, quale programma infrastrutture globali, il progetto della ‘Belt and Road Initiative‘.

Uno scenario sul quale si sono inseriti prima l’allarme di Washington per il 5G cinese e poi i dazi commerciali e che, come evidenziato dalla stessa Commissione europea, ha mostrato come ci siano le condizioni perché certi Paesi possano effettivamente utilizzare attività a scapito non solo del vantaggio tecnologico, ma anche della sicurezza e dell’ordine pubblico dell’Unione europea. 

In questo scacchiere, come si è attrezzata l’Italia? Come sottolinea Giancarlo Giorgetti nel suo intervento, “sebbene si possa andare fieri dell’impianto complessivo della normativa italiana sul Golden Power non mancano aspetti della disciplina che meritino di essere potenziati e migliorati”.

Il riferimento diretto è al fatto che “il ruolo del governo non può ridursi a un approccio meramente burocratico-amministrativo ma deve essere interpretato alla luce del concetto di strategicità“. Per questo, sottolinea Giorgetti, appare  “indispensabile l’ampliamento dei settori da porre sotto tutela al fine di proteggere al meglio le aziende ad alta intensità tecnologica da investimenti predatori” e “pretendere che anche il mondo delle imprese si faccia partecipe di un sentiment che vede nelle regole del Golden Power non soltanto un limite o un condizionamento al loro agire economico, ma anche una garanzia. È una tutela per loro stesse e per il sistema.

Che ruolo hanno i servizi di intelligence in questo scenario? “Tutto il supporto dei servizi segreti all’azione del governo non è teso a convincerlo nelle scelte e neanche orientarlo” scrive Alessandro Pansa, ex capo della polizia e del Dis, “ma a suggerire percorsi da intraprendere per rendere quanto più informato e consapevole il decisore politico che opererà poi le sue scelte che sottendono a strategie di cui l’intelligenza è destinataria e non originatrice”.

Del resto, si evidenza nel rapporto, “non si può arretrare rispetto ai capisaldi del mercato unico – cos’è che sarebbe esiziale per un Paese come l’Italia votato all’export e bisognoso di investimenti anche esteri – ma bisogna porre le condizioni affinché le imprese europee possano competere con le realtà industriali di altri Paesi facilitando i processi di crescita e consolidamento”.

A questo servirebbe la proposta di regolamento Ue del 2017 nata da una richiesta congiunta di Germania, Francia e Italia per promuovere un controllo sugli investimenti diretti esteri proprio e tentare di contenere il fenomeno di investimenti predatori da parte di terzi finalizzati all’acquisizione e delocalizzazione di tecnologia. Norme che andrebbero applicate su casi veramente strategici per evitare un impiego indiscriminato che potrebbe ricreare una pesante influenza dello Stato nell’economia.

Per questo, si legge nel volume, è necessario che il Golden Power non venga confuso con scelte di politiche industriali più o meno interventiste: la strada del controllo statale può avuto senso in un preciso momento storico della ricostruzione industriale del Paese ed è sfociata nella privatizzazione delle imprese e ora è importante non percorrerla a ritroso. Tuttavia, sottolinea, “sono da evitare reazioni fobiche nei confronti di potenziali partner” senza “sottovalutare la minaccia al sistema Paese”.

Articoli nella stessa categoria: