Il revenge shopping latita e non solo perché ci stiamo impoverendo

Il revenge shopping latita e non solo perché ci stiamo impoverendo

27. 05. 2020 Off Di admin

Niente code, nessuna corsa all’accaparramento di borse, scarpe e vestiti. Il “revenge shopping” cinese di post lockdown, con il boom di incassi e le file davanti al negozio Hermès di Canton che a metà aprile aveva aperto le speranze su un effetto fotocopia in Italia, per ora non si è visto, eccezion fatta per taglio, colore e piega dal parrucchiere.

A poco più di una settimana dal via alla riapertura dei negozi, tra dispenser all’ingresso e mascherine, gli incassi del commercio sono ancora molto ridotti e le spese vendicative latitano, fenomeno che non stupisce Nadia Olivero, docente di psicologia dei consumi all’Università di Milano-Bicocca.

Intervistata dall’Agi all’indomani dello shopping sfrenato di Canton aveva avvertito che l’andamento dello shopping nostrano, alla ripresa, sarebbe stato condizionato dal “consumer sentiment”, cioè l’andamento della fiducia dei consumatori sulla situazione e sulle prospettive economiche del Paese. A tagli e casse integrazioni che hanno impoverito i portafogli, si aggiunge, insomma, la paura del futuro. “Le decisioni relative agli acquisti, soprattutto in periodi critici come questi, vengono condizionate, più che dall’entità del conto in banca dal livello di ottimismo sul futuro Paese” ribadisce spiegando quindi che  “il sovvertimento delle nostre priorità durante il  lockdown ha inciso sui nostri consumi.

Possibile che abiti, borse e scarpe per cui spasimavamo ora ci lascino improvvisamente indifferenti?

“L’isolamento casalingo ha impattato sui nostri valori e quindi su priorità e obiettivi: siamo sopravvissuti senza dover dimostrare chi siamo attraverso i consumi. Se prima di questa tragedia  l’affermazione sociale e la riuscita economica erano ai primi posti, e con loro i cosiddetti “consumi ostentativi”, il lockdown ci ha obbligato a riscoprire  una dimensione che non ci apparteneva più, quella dei valori familiari, casalinghi, sentimentali e della salute, con i consumi a loro funzionali: le tecnologie per comunicare, i farmaci…”. 

Però sul parrucchiere e sull’estetista non si risparmia…

“E’ un consumo in linea con il cambiamento dei valori: siamo davanti a un’introversione del consumatore, al suo desiderio di prendersi cura di se stesso”.

I conti in banca si stanno svuotando, la cassa integrazione impera e anche i consumatori che ancora potrebbero permetterselo hanno paura di spendere. Quanto pesa il fatto che la crisi economica innescata dalla pandemia sia stata equiparata a quella del 2008?

“Pesa parecchio, e riguardo al “consumer sentiment” è aggravata dal fatto che questa crisi, rispetto a quella del 2008, contiene un elemento di preoccupazione in più, quello relativo a una seconda ondata del virus. Per la società contemporanea è un fenomeno del tutto nuovo.

Mettiamoci pure che andare in un negozio oggi, tra igienizzazioni, guanti e mascherine, non è poi così gratificante…

“Per  difendersi dalla concorrenza dell’e-commerce, i negozi del consumo tradizionale hanno puntato da anni sull’esperienza sensoriale, quella di chi andava per esempio in un celebre negozio monomarca di sneakers, portandosi a casa, come e anche più del prodotto, quell’esperienza oggi negata o mortificata dalle misure anticoronavirus”.

Come si spiega che i desideri modaioli si stiano concentrando quasi essenzialmente sulle mascherine, da quelle griffate e di lusso in seta o di strass a quelle di cotone in vendita sulle bancarelle?

“L’abbigliamento rappresenta un’estensione del nostro corpo, e la mascherina ha un valore simbolico doppio e ambivalente: da una parte è il simbolo dell’isolamento sociale imposto dal pericolo coronavirus, dall’altro è l’unico strumento che ci permette di avvicinarci all’altro.  E’ entrata prepotentemente nel nostro quotidiano e sta diventando strumentale all’espressione della nostra creatività, siamo rappresentati dalla mascherina che scegliamo di indossare”.

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