Referendum e legge elettorale. La corsa a ostacoli del governo

Referendum e legge elettorale. La corsa a ostacoli del governo

18. 12. 2019 Off Di admin

Referendum sul taglio degli eletti e riforma della legge elettorale. Per la maggioranza giallorossa i prossimi mesi e, in particolare, il mese di gennaio sarà una corsa ad ostacoli. Sia per chi inizia a ritenere possibile la fine anticipata della legislatura, prima che la sforbiciata dei parlamentari entri in vigore – tanto più dopo l’annuncio del raggiungimento delle firme necessarie di 64 senatori per indire la consultazione popolare che, di fatto, ‘congela’ la riforma grillina spostandone in là nel tempo l’entrata in vigore – sia per chi, invece, mira ad allungare la vita del governo e, quindi, dell’attuale Parlamento.

L’intreccio tra riforma del sistema di voto e referendum potrebbe infatti ‘segnare’ il destino del governo e, di conseguenza, del Parlamento. Anche se il premier Giuseppe Conte esclude legami tra le due cose e, in particolare, possibili ripercussioni sull’esecutivo: il referendum “non influenza e non influenzerà l’agenda di governo”, taglia corto.

Non va dimenticato, però, che sull’esecutivo incombe anche la spada di Damocle della verifica di governo, che dovrebbe tenersi ad inizio anno. Ed è proprio in vista di questo appuntamento, per alcuni cruciale, che tra i giallorossi inizia a consolidarsi la convinzione che serva una corsa contro il tempo per varare una riforma elettorale che non consegni armi e bagagli il paese nelle mani di Matteo Salvini.

E il fattore tempo, con l’avvicinarsi della certezza dello svolgimento del referendum costituzionale (si dà per scontato il via libera della Cassazione, così come la vittoria dei sì), diventa elemento fondamentale. Soprattutto per quelle forze, come il Pd, assolutamente contrarie a un ritorno al voto con il Rosatellum. Ipotesi che, invece, non dispiacerebbe alla Lega, che punta a fare manbassa dei collegi uninominali. Sul cammino, però, c’è l’ostacolo di un’intesa che appare ancora lontana.

Domani la maggioranza incontrerà le forze di opposizione: tre faccia a faccia separati (aprirà la Lega la mattina e chiuderà Forza Italia nel pomeriggio) per illustrare al centrodestra le due ipotesi sul tavolo. Un proporzionale con sbarramento nazionale al 5% e un modello simil spagnolo con soglia implicita circoscrizionale. Ma nessuno dei partecipanti agli incontri di domani si fa molte illusioni. Soprattutto nella maggioranza.

Non è un caso, del resto, che la delegazione giallorossa che incontrerà le opposizioni non sarà in ‘pompa magna’: assente il ministro Federico D’Incà (che finora non si era perso nemmeno un vertice), non prenderanno parte alle ‘consultazioni’ i capigruppo delle forze che sostengono il governo. Un solo rappresentante per partito: per il Pd sarà Dario Parrini, per Iv Marco Di Maio, per Leu Federico Fornaro, per le Autonomia Gianclaudio Bressa e per M5s Anna Macina. Ospite di casa il presidente della commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia.

Più nutrito e ‘sostanzioso’ invece l’assetto del centrodestra: per la Lega – riferiscono fonti leghiste – dovrebbero sedersi al tavolo Roberto Calderoli e Giancarlo Giorgetti; per Forza Italia la capogruppo Gelmini assieme a Sisto e Pagano. Per FdI assicurata la presenza di La Russa. Ma già la scorsa settimana, quando la maggioranza decise di aprire in anticipo il tavolo del confronto con le opposizioni, più di un esponente che si occupa del dossier confidava: è un modo per prendere tempo.

Perchè, è questo il punto, i giallorossi non hanno ancora raggiunto un’intesa sul modello da adottare. Sul simil spagnolo resta il veto dei renziani, mentre Leu fa muro contro la soglia al 5% (anche se nella maggioranza si dà già per scontato che scenda almeno al 3,5%). Ieri il segretario dem ha piantato un paletto: se proporzionale deve essere, la soglia di sbarramento deve essere alta.

Appare dunque al momento difficile, calendario alla mano, che venga rispettata la tabella di marcia indicata dai giallorossi: proposta messa nero su bianco e da depositare alle Camere entro dicembre. Col passare delle ore, infatti, si fa strada l’ipotesi che tutto venga rinviato a gennaio. Mese in cui si conoscerà anche la sorte del referendum leghista sull’abolizione della quota proporzionale del Rosatellum (la Consulta dovrebbe esprimersi il 15) e in cui la Cassazione dirà l’ultima parola sul referendum sul taglio degli eletti.

Consultazione popolare che, se tutto dovesse filare liscio, non si svolgerebbe prima di maggio-giugno. Ed è proprio su questo lasso di tempo che puntano i detrattori dell’attuale governo e chi, pur sostenendo il governo, non disdegnerebbe di tornare prima alle urne. Per di più, è l’opinione prevalente ma non supportata da dichiarazioni ufficiali, alla luce della possibilità che le Camere, in caso di crisi, potrebbero essere sciolte anche prima dello svolgimento del referendum, andando così ad eleggere tutti e i 945 parlamentari.

Sarebbe un Parlamento delegittimato, è l’opinione di chi, invece, ritiene – come fa oggi in chiaro Rotondi – che il Capo dello Stato non possa consentire che si vada a votare prima dell’entrata in vigore della riforma sul taglio degli eletti. Ipotesi e supposizioni a parte, per i promotori del referendum costituzionale (Fondazione Einaudi, assieme ai forzisti Cangini e Pagano e al dem Nannicini), non vi è nessun legame tra la durata della legislatura e il referendum.

Anzi, la campagna referendaria sarà l’occasione per dar vita nel Paese a un dibattito sulla riforma che è invece mancato, è la tesi. Ma nessuno, nei palazzi della politica, nega che il referendum possa accelerare il ritorno alle elezioni. Per questo, è la posizione di chi mira a cancellare il Rosatellum, non si può più temporeggiare sulla riforma, tanto più in vista di una vittoria scontata dei sì al taglio dei parlamentari. Anche perché, osserva ad esempio Luigi Di Maio, “voglio vedere chi sarà per il no”. 

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