Il suicidio del re del caffè indiano è il simbolo del fallimento della classe media

Il suicidio del re del caffè indiano è il simbolo del fallimento della classe media

06. 08. 2019 Off Di admin

È scomparso 3 giorni fa, molto probabilmente suicida, a Bangalore nella Silicon Valley indiana, il ‘re del caffè’ dell’India, V.G. Siddhartha, imprenditore che portava lo stesso nome del fondatore del buddismo ed era uno degli uomini più ricchi del Paese, proprietario della catena Cafe Coffee Day, una sorta di Starbucks indiana.

Un’azienda a suo modo anomala per l’India, visto che Siddhartha ha scommesso sul business del caffè in un Paese dove si beve soprattutto tè. Non lo ha fatto per caso: Siddhartha sapeva benissimo che in India si beve il tè sette volte più del caffè, ma ha puntato su questa bevanda, sia perché la sua famiglia ha investito per 130 anni in questa bevanda, sia soprattutto perché ha intuito che il caffè poteva diventare il nuovo business di un Paese in rapida trasformazione e rappresentava la bevanda preferita e quindi lo status symbol della classe media indiana.

Il suo motto era “a lot can happen with coffee”, “molto può accadere col caffè”. Siddhartha ha cercato di trasformare il suo impero indiano del caffè in una storia di successo globale. E ci è riuscito solo in parte, come dimostra il suo apparente suicidio, che ha messo in evidenza la difficile lotta che molte aziende stanno sperimentando in India, cercando di prosperare sulla scia di una classe media particolare, in rapida espansione ma anche ‘low cost’. La storia di Siddhartha s’intreccia strettamente con quella dell’attuale fase di sviluppo dell’India e si lega con la storia di una classe media che è molto diversa, non solo da quella europea e americana, ma anche da quella cinese.
 

L’impero del caffè di Siddhartha

In poco più di 20 anni il 59enne Siddhartha è diventato uno dei principali commercianti mondiali di caffè. Nel 1996, a Bangalore, ha fondato il suo primo Coffee Day, un internet cafè come non se ne erano mai visti in India, un’oasi ‘global’, sul modello della quale ha creato una catena di locali tra le più grandi al mondo: oltre 1.700 esercizi dislocati in 245 città indiane che vendono ogni anno due miliardi di tazze di caffè, ossia quanto Starbucks vende in tutto il mondo con i suoi 23.000 negozi. Nel 2005 Siddhartha inizia ad espandersi all’estero, apre un locale a Vienna, poi a Praga e altri negozi in Malaysia e in Egitto. Nei suoi caffè gli studenti vanno a studiare, la gente si ferma dopo il cinema, si organizzano matrimoni. Il suo sogno? Rivaleggiare con McDonald’s e Starbucks, ma alla maniera indiana. Costruisce un network indiano di oltre 50.000 macchinette per la distribuzione del caffè. E soprattutto coltiva caffè: nelle sue tazzine e nei bicchierini di carta delle sue macchinette per il caffè, la materia prima proviene dalla sue piantagioni.

La sua famiglia è proprietaria di una delle maggiori piantagioni dell’Asia, con 12 mila ettari a disposizione. Questo gli consente di distribuire caffè a costi molti minori della concorrenza. Tuttavia non tutto fila liscio. Nel 2012 Starbucks sbarca in India e i profitti dell’azienda di Siddhartha calano. Per tenere il passo, lui investe, si espande ma s’indebita anche. La Coffee Day arriva a indebitarsi per 800 miliardi di dollari con le banche, una cifra molto consistente rispetto alle dimensione della sua azienda.

Nel maggio scorso a una conferenza con gli analisti sono in molti a chiedergli cosa intenda fare per ridurre l’indebitamento. L’imprenditore fatica a rispondere: con la sua famiglia ha dovuto impegnare il 70% delle loro partecipazioni in società come garanzia per ottenere prestiti. E poi a partire dal 2017, diversi controlli fiscali avevano messo sotto pressione il suo impero e Siddhartha, alle strette, aveva avviato un negoziato con la Coca Cola per vendere una partecipazione importante della sua azienda.

In una lettera al cda, rinvenuta dopo il ritrovamento del suo corpo, Siddhartha si dichiara un “imprenditore fallito” che abbandona il campo dopo una dura battaglia. “Ha sempre pensato in grande – rivela al Wall Street Journal D.K. Suresh, un suo amico e deputato – Ma ultimamente era molto stressato, aveva paura di non farcela a far fronte alle aspettative che aveva suscitato”.

La difficile scommessa sul boom della Middle Class

Il re del caffè aveva puntato sul ‘boom’ della classe media indiana ma la sua era una scommessa difficile che, secondo il Wall Street Journal, dovrebbe servire di ammonimento per i colossi come Amazon e WalMart che investono in India. Il rischio per tutte queste aziende è quello di investire miliardi di dollari sui consumi di centinaia di milioni di persone per scoprire poi che il numero di consumatori che potrebbero effettivamente permettersi i loro prodotti è più probabilmente dell’ordine di qualche milione di persone. Lo dimostrano il fallimento della compagnia aerea Jet Airways e la decisione di General Motors de ritirarsi nel 2017 dal mercato indiano, per guidare le sue ambizioni internazionali verso Paesi con vendite più elevate.
 

Una classe media ‘low cost’ 

L’India è un Paese incredibile. Ha un tasso di crescita tra i più alti al mondo: +7,2% nel 2017-18 e quest’anno dovrebbe crescere del 6,8%, più della Cina. Negli ultimi 15 anni il suo Pil si è moltiplicato per 5. Inoltre, l’India è il terzo Paese al mondo per numero di utenti Internet. Cina e India hanno i tassi di crescita più alti al mondo sull’utilizzo del web e l’India, essendo il Paese con la più alta percentuale di giovani, è quello con le migliori prospettive di crescita.

Tuttavia c’è anche l’altra faccia della medaglia. La classe media indiana è uno dei motori dello sviluppo, ma è una classe media low cost, nel senso che per appartenervi basta avere un posto di lavoro, un cellulare, una moto e quasi niente welfare. Attualmente ne fanno parte circa 300 milioni di persone, che si stima possano diventare 500 milioni nel 2025, più della Cina, che conta su una middle class intorno ai 130 milioni di persone, le quali però hanno un peso maggiore. Basti pensare al numero di auto vendute, che in Cina tocca i 30 milioni l’anno e in India è fermo a 3 milioni. Se dunque si sposta l’asticella dei consumi più in alto, per rendere più uniforme la composizione della classe media tra i due paesi (un confronto con l’Europa, gli Usa e il Giappone è di fatto improponibile), il numero di indiani che rientrano a far parte della middle class si abbassa molto e scende a poche decine di milioni, probabilmente circa 80 milioni.
 

Il sogno infranto di Siddhartha 

Il sogno di Siddartha di creare un ‘paradiso’ per la classe media indiana, si è dunque infranto contro questo scoglio di una middle class emergente ma povera, oltre che sulla lotta all’evasione fiscale del governo di Narendra Modi, che non gli ha fatto sconti, anzi l’ha preso di mira, subissandolo di ispezioni fiscale da due anni a questa parte. Probabilmente sono questi i principali motivi del suo suicidio. Lunedì sera Sidharta è scomparso misteriosamente. L’ultimo a vederlo è stato il suo autista. Stavano viaggiando da Bangalore a Mangalore, quando intorno intorno alle 18.30 l’imprenditore gli ha chiesto di accostare e di aspettare in auto il suo ritorno e si è incamminato lungo la strada che costeggia il fiume.

Siddhartha era solito fare lunghe camminate nelle sue piantagioni di caffè per rilassarsi. Ma da questa passeggiata non è più tornato indietro. Il suo corpo è stato scoperto da un pescatore che lo ha avvistato trascinato dalla corrente del Netravati, il fiume sacro che scorre lento nello stato indiano di Bangalore. Le indagini sul suo presunto suicidio sono ancora aperte.

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