L’impatto dell’embargo americano sul petrolio russo

L’impatto dell’embargo americano sul petrolio russo

23. 03. 2022 Off Di admin

AGI – L’8 marzo scorso, a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno imposto il blocco dell’import al petrolio e al gas russi. L’Europa molto più dipendente da Mosca non si è unita alla decisione. Londra ha detto subito che l’embargo sarà graduale e solo entro la fine dell’anno abbandonerà il petrolio russo, pari a circa l’8% una cifra notevolmente inferiore alla maggior parte degli altri paesi europei.

Secondo l’Aie (Agenzia internazionale dell’energia) la Russia, maggior esportatore di greggio al mondo, alla fine del 2021 esportava sui mercati globali quasi 8 milioni di barili al giorno. Di questi, il 60% arriva in Europa, il 2% in Gran Bretagna e l’8% in Usa. Di fronte all’embargo, il vice primo ministro russo Alexander Novak ha affermato che il prezzo sui mercati potrebbe arrivare a 300 dollari al barile. Una esagerazione, per molti analisti.

Gli Usa sono il maggior produttore di petrolio e gas

Per gli Stati Uniti la decisione non è così traumatica. L’import di idrocarburi (petrolio+gas) russo per Washington vale circa l’8% (3% per il greggio) pari a 700.000 barili al giorno. Una cifra minima rispetto alla fortissima dipendenza che ha l’Europa e che per questo non ha imposto la misura. Gli Usa, che sono il primo produttore mondiale di petrolio e gas, stanno comunque riallacciando rapporti con paesi fino a ieri ‘nemici’ come il Venezuela.

Il 6 marzo scorso la Casa Bianca ha inviato una delegazione statunitense per parlare con il governo del presidente Nicolas Maduro. Da quello che si è appreso al centro della discussione ci sono state proprio le forniture energetiche e il Venezuela potrebbe aumentare la produzione di almeno 400.000 barili al giorno (bpd).

Le attenuanti dell’Europa

Nel comunicato dell’8 marzo la Casa Bianca riconosce le ‘attenuanti’ all’Europa. “Gli Stati Uniti – c’è decritto nel documento – sono in grado di compiere questo passo grazie alla solidità delle nostre infrastrutture energetiche nazionali e riconosciamo che non tutti i nostri alleati sono attualmente in grado di unirsi a noi. Ma siamo uniti ai nostri alleati nel lavorare insieme per ridurre la dipendenza collettiva dall’energia russa e mantenere una pressione crescente su Putin, adottando allo stesso tempo misure attive per limitare gli impatti sui mercati energetici globali e proteggere le nostre economie”. 

Il prezzo che gli Usa rischiano di pagare

In realtà la misura avrà impatti più esogeni che endogeni ma, spiega un analista, rientra nel prezzo da pagare che l’Occidente è consapevole di sopportare imponendo le sanzioni a Mosca. Il 7 marzo quando i rumors hanno cominciato a circolare, il Brent è volato a quasi 140 dollari (139 dollari).

L’annuncio ha creato un effetto boomerang: i prezzi sono schizzati al rialzo proprio quello contro cui combatte il governo da oltre un anno, da quando terminate le misure restrittive anti-Covid, la domanda a livello globale è aumentata oltre l’offerta provocando il rialzo dell’inflazione (ai massimi da 40 anni) e quello del prezzo dei carburanti.

Sempre l’8 marzo la benzina negli Stati Uniti ha raggiunto il livello record di 4,17 dollari al gallone (circa quattro litri e mezzo) battendo il primato del luglio 2008 quando un gallone di era arrivato in media a 4,11 dollari a gallone.

Il prezzo della benzina e il futuro di Biden

Il tema del prezzo della benzina per Biden è assolutamente urgente alla luce delle elezioni di Mid Term in programma il prossimo 8 novembre. E’ cosa nota che i consumatori statunitensi, quando vanno a votare, guardano più al portafoglio che ai programmi politici. Per questo Washington sta facendo di tutto per abbassare il prezzo del greggio (e di conseguenza della benzina) per non ritrovarsi a novembre un Congresso a maggioranza repubblicana.

Il rilascio delle scorte strategiche

Da novembre scorso l’amministrazione è impegnata a rilasciare oltre 90 milioni di barili dalla Strategic Petroleum Reserve (le riserve strategiche), proprio per far scendere il prezzo del greggio. Dopo un intenso coordinamento, Stati Uniti e Aie il 10 marzo hanno concordato un rilascio collettivo di 60 milioni di barili iniziali di petrolio (30 milioni in capo agli Usa). E’ importante ricordare che lo scorso novembre quando gli Usa decisero il primo rilascio, l’Agenzia internazionale dell’energia si dissociò.

“Non è la nostra risposta, l’offerta c’è ma non raggiunge i consumatori. Sia l’Opec+ ad agire”, disse il direttore Fatih Birol in quell’occasione. Era il 23 novembre e gli Stati Uniti annunciarono il rilascio di 50 milioni di barili dalle riserve strategiche in coordinamento con Cina, India, Corea del Sud, Giappone e Gran Bretagna. Dopo i tanti e vani appelli all’Opec+ di incrementare l’offerta, Joe Biden ha deciso di fare da solo. 

Impatto molto limitato sui prezzi 

Queste mosse hanno impattato molto poco sui prezzi che da novembre hanno continuato a salire rendendo, evidentemente, esatto quanto detto da Birol: solo l’Opec+ può fare calare i prezzi producendo più greggio. Cosa che finora ha evitato di fare anche perché leader dell’organizzazione sono Russia e Arabia Saudita che da quando l’amministrazione Biden ha individuato nel principe Mohammad bin Salman il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi ha raffreddato i rapporti diplomatici con Washington.

Come detto, lo stop all’import di greggio russo avrà impatti più interni per gli Usa che globali con una forte probabilità che l’ulteriore rialzo dei prezzi del greggio possa far salire l’inflazione con ripercussioni politiche per Biden. Una data da segnare in rosso nel calendario è quella del 31 marzo quando si riunirà proprio l’Opec+ per decidere la politica produttiva.

Da quello che riferiscono le prime indiscrezioni, l’organizzazione si atterrà anche questa volta (come fa da agosto) a un aumento di 400.000 barili al giorno, una quantità ritenuta assolutamente insufficiente.

La svolta verde Usa è limitata

Proprio per questo, gli Stati Uniti, nonostante le promesse elettorali di una transizione green, hanno ripreso a produrre oil&gas ai massimi livelli. “La produzione statunitense di petrolio e gas si sta avvicinando a livelli record” ha spiegato la Casa Bianca pochi giorni fa sottolineando che “le politiche federali non stanno limitando la produzione di idrocarburi“.

Al contrario, l’amministrazione è stata chiara sul fatto che, “a breve termine, l’offerta deve tenere il passo con la domanda, in patria e in tutto il mondo, mentre passiamo a un futuro sicuro di energia pulita”. La produzione di gas naturale non è mai stata così alta e Washington prevede che la produzione di greggio raggiungerà un nuovo massimo il prossimo anno 

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