Svimez: al Sud mezzo milione di nuovi poveri a causa dell’inflazione

Svimez: al Sud mezzo milione di nuovi poveri a causa dell’inflazione

28. 11. 2022 Off Di admin

AGI – Nel 2023 il Pil meridionale rischia di contrarsi fino a -0,4%, mentre quello del Centro-Nord, pur rimanendo positivo a +0,8%, dovrebbe segnare un forte rallentamento rispetto al 2022. Il dato medio italiano dovrebbe attestarsi invece intorno al +0,5%. È la stima contenuta nel Rapporto Svimez 2022, giunto alla sua 49esima edizione, presentato alla Camera dei deputati.

Secondo lo studio, nel 2022 il Pil dovrebbe crescere del 3,8% a scala nazionale, con il Mezzogiorno (+2,9%) distanziato di oltre un punto percentuale dal Centro-Nord (+4,0%). Il nuovo shock – spiega Svimez – ha cambiato il segno delle dinamiche globali (rallentamento della ripresa; comparsa di nuove emergenze sociali; nuovi rischi operativi per le imprese), interrompendo il percorso di ripresa nazionale coeso tra Nord e Sud.

Gli effetti territorialmente asimmetrici dello shock energetico intervenuto in corso d’anno, penalizzando soprattutto le famiglie e le imprese meridionali, dovrebbero riaprire la forbice di crescita del Pil tra Nord e Sud. 

Il peggioramento della congiuntura nel 2023 – spiega Svimez – è determinata soprattutto dalla contrazione della spesa delle famiglie in consumi, a fronte della continuazione del ciclo espansivo, sia pure in forte rallentamento nel Centro-Nord (+0,8%).

La ripresa nel 2024

Il 2024 dovrebbe essere un anno di ripresa sulla scia del generale miglioramento della congiuntura internazionale, unitamente alla continuazione del rientro dall’inflazione che scende al +2,5% e +3,2% nel Centro-Nord e nel Mezzogiorno nell’anno. Si stima che il Pil aumenti nel 2024 dell’1,5% a livello nazionale, per effetto del +1,7% nel Centro-Nord e dello +0,9% al Sud. Il dato del Sud, di per sé apprezzabile visto che dovrebbe tornare in territorio positivo dopo il calo del 2023, sarebbe comunque sensibilmente inferiore a quello del resto del Paese.

Un aspetto strutturale – sottolinea il rapporto – che contribuisce a spiegare la debole ripartenza meridionale è rintracciabile sul lato dell’offerta: a seguito dei continui restringimenti di base produttiva sofferti dal Sud dal 2008, si è sensibilmente ridimensionata la capacità del sistema produttivo dell’area di agganciare le fasi espansive del ciclo economico.

A causa dei rincari dei beni energetici e alimentari l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta potrebbe crescere di circa un punto percentuale salendo all’8,6%, con forti eterogeneità territoriali: +2,8 punti percentuali nel Mezzogiorno, contro lo 0,3 del Nord e lo 0,4 del Centro.

Mezzo milione di nuovi poveri al Sud

Sono le stime del 49esimo Rapporto Svimez 2022, presentato alla Camera dei deputati. In valori assoluti Svimez calcola 760 mila nuovi poveri causati dallo shock inflazionistico (287 mila nuclei familiari), di cui mezzo milione al Sud.

In base alle stime Svimez, l’aumento dei prezzi di energia elettrica e gas si traduce in un aumento in bolletta annuale di 42,9 miliardi di euro per le imprese industriali italiane; il 20% circa (8,2 miliardi) grava sull’industria del Mezzogiorno, il cui contributo al valore aggiunto industriale nazionale è tuttavia inferiore al 10%.

La crisi inflazionistica – spiega Svimez – presenta rischi concreti per la sostenibilità dei bilanci di famiglie e imprese, con effetti più allarmanti nel Mezzogiorno. Con riferimento alle famiglie, a subire maggiormente le conseguenze dei rincari della bolletta energetica e dei beni di prima necessità sono i nuclei a reddito più basso, per i quali l’incidenza dei costi “incomprimibili” arriva a coprire circa il 70% dei consumi totali.

Queste famiglie sono maggiormente concentrate nel Sud Italia. In base ai dati Istat 2021, infatti, una famiglia su tre residente nel Mezzogiorno si colloca nel primo quintile di spesa equivalente (presenta una spesa media mensile minore o uguale alla spesa media del 20% più povero di tutte le famiglie italiane).

Nelle altre aree del Paese, la percentuale è nettamente inferiore: le famiglie collocate nel primo quintile di spesa sono circa il 13% nel Nord e poco più del 14% nel Centro. Considerando l’inflazione acquisita per l’anno in scorso dell’8% per tutte le voci di spesa (dato previsionale Istat riferito a ottobre 2022), si osserva un incremento dell’8,9% per i beni alimentari e del 34,9% per la voce “abitazione, acqua, elettricità e spesa per combustibili”.

I prezzi al consumo su dell’8,5%

La maggiore esposizione delle regioni meridionali allo shock inflazionistico emerge anche da una stima del numero dei nuclei familiari a rischio povertà assoluta. La Svimez stima un aumento dell’incidenza della povertà assoluta di 2,8 punti percentuali nel Mezzogiorno contro lo 0,4 del Nord e lo 0,5 del Centro. Il risultato stimato per il Sud è spiegato essenzialmente dalla maggiore diffusione nelle regioni meridionali di famiglie più numerose (numero di componenti maggiore di 3) e con minori a carico per le quali il rischio povertà è segnatamente più elevato rispetto ai nuclei più ridimensionati.

 Nel corso del 2022 i prezzi al consumo dovrebbero crescere in media dell’8,5%, dato che racchiude una significativa differenziazione territoriale: +8,3% al Centro-Nord e +9,9% nel Mezzogiorno, con un differenziale sfavorevole al Sud dovuto in larga parte a un effetto composizione. È la previsione di Svimez, secondo cui nel “carrello della spesa” del consumatore medio del Sud è prevalente l’acquisto di beni di consumo, più colpiti dal rincaro delle materie prime; viceversa, al Centro-Nord assume un peso rilevante l’acquisto dei servizi, interessati da una crescita dei prezzi significativamente minore. La differenza nel “carrello della spesa” delle famiglie tra le due circoscrizioni si deve, a sua volta, all’ampia difformità nella distribuzione dei redditi a livello territoriale.

Nel Mezzogiorno la ripresa occupazionale verificatasi nel 2022 è stata “di bassa qualità, alimentandosi all’aumento della precarietà”. È quanto emerge dal Rapporto Svimez 2022, giunto alla sua 49esima edizione, presentato alla Camera dei deputati. 

L’occupazione – sottolinea l’indagine- è tornata sui livelli pre-pandemia, in anticipo rispetto al Centro-Nord attestandosi su livelli comunque inferiori rispetto al 2008 (-2,9%), al contrario di quanto avvenuto nel Centro-Nord (+2,6%). L’occupazione (media dei primi due trimestri), cresciuta in Italia del 3,6% (+791 mila unita’) nel 2022, rispetto alla prima metà del 2021, ha premiato soltanto i maschi con un +0,2%, a fronte di un moderato calo dell’occupazione femminile a-0,8%.

Al sud il lavoro sempre più precario e povero

Nel 2021 la quota di lavoratori dipendenti impegnati in Italia in lavori a termine da almeno 5 anni (che include quelli con contratto a tempo determinato e i collaboratori) si è attestata al 17,5% del totale dei lavoratori a termine. Il fenomeno della precarietà “persistente” – fa notare il rapporto – non è tuttavia omogeneo su base territoriale. Nelle regioni del Mezzogiorno si raggiunge il valore massimo di quasi un lavoratore su 4 (23,8%, ma in calo di un punto percentuale rispetto al 2020), quasi 11 punti in più della quota che si registra al Nord (13%) e superiore di oltre 7 punti a quella del Centro.

 Tutto questo – spiega Svimez – si traduce in una maggiore difficoltà delle persone a fuoriuscire dalla condizione di precarietà: nel 2020, ultimo anno disponibile, la quota di occupati precari (a termine e collaboratori) che a distanza di un anno trovavano un’occupazione stabile era al Sud particolarmente bassa, pari al 15,8%. Il valore nazionale era del 22,4%, salendo al 26,9% al Nord. Più precari e più a lungo, in sintesi: ciò si traduce in una maggiore percezione di insicurezza del lavoro nelle regioni meridionali. 

Secondo il Rapporto, cresce il fenomeno del lavoro povero: nel 2021 gli occupati dipendenti extragricoli privati con bassa retribuzione (inferiore a 10.700 euro) erano in Italia 3,2 milioni, di cui 2,1 milioni al Centro-Nord (il 18% degli occupati) e 1,1 milioni al Sud, ben il 34,3% degli occupati. 

Svimez fa poi notare che l’inflazione rimane al di sopra della crescita salariale negoziata per il 2022, continuando a erodere i salari reali nel corso dell’anno. Tra il 2008 e il 2021 le retribuzioni lorde in termini reali si sono ridotte di circa 9 punti al Sud e di circa 3 al Nord. Il rischio di una spirale inflazionistica salari-prezzi – osserva Svimez – è molto contenuto, tanto è vero che i salari reali sono previsti in calo. Le riforme strutturali degli ultimi decenni hanno creato condizioni mediamente più sfavorevoli agli adeguamenti salariali. A ciò si aggiungono, in Italia, alcune peculiarità del mercato del lavoro che tendono a ostacolare ulteriormente la revisione al rialzo dei salari: l’ampia diffusione dei contratti atipici e, per le forme più stabili di impiego, la lunga durata dei contratti; il riferimento a previsioni di inflazione al netto della variazione dei prezzi dei beni energetici importati; la ridotta diffusione di clausole di rinegoziazione degli aumenti qualora l’inflazione effettiva superi quella programmata.

Il divario nord-sud nel lavoro femminile

Il Rapporto sottolinea poi che “è netto il divario tra i tassi d’occupazione femminile del Mezzogiorno e del Centro-Nord, che in termini di numero di occupati si quantifica in 1,6 milioni (nel senso che se il tasso di occupazione femminile fosse uguale a quello del Centro-Nord, nel Mezzogiorno l’occupazione femminile aumenterebbe di 1,6 milioni)”. 

In Italia sono circa 4 milioni, di cui circa 1,8 milioni nel Mezzogiorno, le donne più o meno vicine al mercato del lavoro ma che non vengono impiegate. Il labour market slack in Italia raggiunge livelli ben più elevati della media europea e aumenta decisamente dal 2008, in controtendenza con il dato europeo. La peculiare carenza di domanda di lavoratrici nelle regioni meridionali è resa manifesta da valori intorno al 50% dell’indicatore, a evidenziare che solo la metà delle donne potenzialmente disponibili a lavorare trovano occupazione. 

Per le donne, i problemi familiari sono tra le principali cause di dimissioni volontarie: nel 2020 oltre il 77% delle convalide di dimissioni di genitori di figli tra 0 e 3 anni è ascrivibile alle donne. Sul totale delle convalide la dichiarazione più frequente è la difficoltà di conciliare occupazione ed esigenze di cura della prole, sia per carenza di servizi di cura, sia per difficoltà a organizzare il lavoro. In tutte le circoscrizioni si registra una spiccata prevalenza delle convalide relative a lavoratrici madri, che rappresentano il 93% nel Mezzogiorno e il 72% nel Nord. 

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