Covid, guerra e sanzioni: come cambiano le ‘supply chain’ globali

Covid, guerra e sanzioni: come cambiano le ‘supply chain’ globali

29. 03. 2022 Off Di admin

AGI – Le sanzioni, la guerra e il Covid in Cina stanno radicalmente trasformando le ‘global supply chain’, le catene di approvvigionamento globali, attraverso le quali passano la maggior parte delle merci che usiamo per la nostra esistenza quotidiana. Le moderne catene di approvvigionamento sono state progettate per essere economiche, ma non necessariamente resilienti.

Fin dall’adozione dei container negli anni ’60, queste catene di fornitura si sono sempre più globalizzate e hanno governato il decentramento e l’approvvigionamento di un sistema industriale fortemente internazionalizzato. Negli ultimi 50 anni rendere il trasporto transoceanico e transcontinentale economico e affidabile significava che la produzione poteva spostarsi ovunque i salari fossero più bassi. E questo, a sua volta, significava che la maggior parte delle fabbriche si spostava sul lato opposto del mondo, principalmente in Cina. Ma significava anche, soprattutto per tecnologie complicate come quelle degli smartphone, delle auto e dei computer, che quando i materiali venivano ridotti in parti, e poi in sottocomponenti e infine i prodotti finiti, essi potevano attraversare il mondo più volte.

Il sistema della Global Supply Chain si è ‘rotto’

L’assemblaggio con parti provenienti da tutto il mondo ha reso il sistema industriale mondiale fortemente dipendente da tre caratteristiche del commercio globale che fino a pochi anni fa, venivano date per scontate. La prima è che le materie prime sarebbero sempre state economiche e ampiamente disponibili. La seconda, che le spedizioni sarebbero costate una frazione del valore delle merci in movimento. La terza che queste spedizioni sarebbero sempre state affidabili.

La prima crepa a queste tre certezze si è vista con la guerra commerciale Usa-Cina del 2018. Poi la pandemia ha allargato le crepe. Ora, le sanzioni contro la Russia, la continuazione della guerra commerciale con la Cina, i disastri naturali e i sistemi di produzione e di trasporto messi fuori uso dall’invasione dell’Ucraina, hanno cronicizzato i problemi e i guasti delle catene di approvvigionamento globalizzate.

Per ovviare a questi problemi molte aziende si stanno sforzando di capire come rendere le catene di approvvigionamento più robuste aggiungendo più fabbriche, più fornitori e più fonti di materiali. Non è una deglobalizzazione, ma è un rimpasto costoso e dispendioso dei luoghi in cui le merci e i prodotti vengono realizzati e dei loro centri di smistamento.

Si è corso ai ripari col costoso approvvigionamento multiplo

Nella logistica, questo passaggio dalle catene di approvvigionamento alle reti è noto come “approvvigionamento multiplo”, spiega al Wall Street Journal Nathan Resnick, presidente e co-fondatore di Sourcify, un’entità che aiuta le aziende a trovare e gestire le fabbriche in Asia.

Quella di avere un solo fornitore delocalizzato per la produzione di merci e componentistica è stata a lungo una pratica standard, ma a partire dalle più recenti guerre commerciali, le cose sono cambiate e più aziende, anche quelle di piccole e medie-dimensioni, sono state costrette a fare il duro lavoro di rivolgersi a più fabbriche e di sincronizzare diversamente i passaggi delle merci attraverso a questa rete.

Willy Shih è un professore dell’Università di Harvard che consiglia il Dipartimento al Commercio degli Stati Uniti su come puntellare le catene di approvvigionamento nazionali. In un suo recente saggio, Shih ha scritto come la pandemia sia stata un campanello d’allarme per i manager, e come il mondo sembra ora muoversi verso aziende e paesi che stanno trasferendo le catene di approvvigionamento all’interno dei blocchi commerciali regionali dei paesi politicamente alleati.

Allo stesso tempo, le aziende stanno riconoscendo la loro vulnerabilità alle interruzioni dell’approvvigionamento e i governi si stanno concentrando verso l’autosufficienza e la salvaguardia dell’accesso ai beni chiave per motivi di sicurezza nazionale. In Cina la chiamano ‘doppia circolazione’. Nell’Unione Europea, l’hanno battezzata ‘sovranita’ tecnologica’, in quanto si occupa principalmente di salvaguardare la sicurezza dei prodotti tecnologici.

Negli Stati Uniti, la legislazione che si prefigge di rafforzare le catene di approvvigionamento nazionali, include i 52 miliardi di dollari dell’America Act, approvato ma non ancora finanziato, volto a riportare negli Stati Uniti la produzione dei microchip, che attualmente si è ridotta al 12% dal 40% del 1990. Ma quali sono i casi più evidenti dell’attuale crisi delle global supply chian?

I lockdown nei grandi porti cinesi

Shenzhen è uno dei porti più trafficati della Cina. E serve un importante hub di produzione ed esportazione, che comprende il terminal di Yantian, il quale gestisce circa un quarto di tutte le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti: dall’elettronica, ai mobili, agli elettrodomestici e alle parti di automobili.

Un focolaio di Covid-19 ha chiuso il terminal di Yantian per quasi un mese a giugno 2021, creando un arretrato di decine di migliaia di container, mentre decine di navi aspettavano settimane fuori Shenzhen per caricare. Gli operatori hanno dirottato un certo numero di navi verso altri porti, che poi hanno creato colli di bottiglia nei porti californiani di Los Angeles e Long Beach.

L’interruzione delle attività di terminal come quello di Yantian hanno finito per congestionare i traffici merci internazionali e hanno fatto lievitare i costi degli spedizionieri. Il prezzo per spedire un container marittimo dalla Cina alla California è salito del 386% rispetto a gennaio dello scorso anno. Jay Duehring, che gestisce la logistica e il commercio per Specialized Bicycle Components, una società con sede in California che importa circa 1 milione di biciclette all’anno racconta: “Il nostro costo di trasporto è triplicato rispetto allo scorso anno e i tempi di consegna sono raddoppiati a quasi due mesi. I lockdown hanno comportato anche forti restrizioni per i camion che viaggiavano dentro e fuori di Shenzhen e anper quelli da Shenzhen a Hong Kong. Inoltre anche a Shanghai, il più grande porto del mondo, ci sono state restrizioni ai camion”.

Gli ultimi focolai di Covid hanno costretto alcuni colossi come Foxconn, Toyota e Tesla a tagliare la produzione.

Distretto finanziario di Shanghai in lockdown per 9 giorni

Le autorità di Shanghai hanno annunciato da oggi 9 giorni di lockdown complessivi in più turni per il distretto finanziario cittadino di Pudong e per altre 9 aree. Il lockdown è stato deciso per consentire test di massa contro il Covid. Le persone delle aree colpite dovranno rimanere in casa e il trasporto pubblico sarà sospeso fino al primo aprile.

Il blocco di Shanghai determinerà ulteriori ‘colli di bottiglia’ nella catena di approvvigionamenti, visto che stimo parlamdo di uno dei distretti industriali più vasti del mondo, da cui si riforniscono moltissime aziende in ogni parte del pianeta.

In pratica, se si blocca la Cina rallenta tutta la catena industriale globalizzata. E Pechino contro il Covid adotta la politica della ‘tolleranza zero’ e cioè risponde alla pandemia con una politica del ‘pugno di ferro’, mettendo in lockdown milioni di cinesi. La strategia anti-Covid cinese non si basa sulle vaccinazioni, come in Occidente, ma sui lockdown.

Il paese ha bassi tassi di vaccinazione tra gli adulti più anziani e molto meno letti ospedalieri di terapia intensiva pro capite rispetto alla maggior parte dei paesi industrializzati. Un’estesa epidemia, o l’emergere di una nuova variante pericolosa potrebbe rapidamente sopraffare gli ospedali, soprattutto nelle aree rurali. Per questo le autorità ordinano blocchi e lockdown molto severi. In risposta anche a un singolo caso di Covid, i funzionari cinesi possono sigillare tutti gli ingressi di un negozio, di un edificio per uffici, di una fabbrica, di un centro congressi, o di un intero quartiere.

Ognuno all’interno dell’area delimitata deve rimanere al suo interno per diversi giorni in quanto tutti sono testati e inviati in isolamento se risultano contagiati dal Covid. In tutto il paese, vengono radunati e testati milioni di cittadini ogni giorno.

Una simile politica a Shenzen ha bloccato fabbriche gigantesche come il colosso taiwanese Foxconn, che assembla il 70% di tutti gli iPhone di Apple, oppure gli stabilimenti per la produzione delle Toyota. A Shanghai, che conta 26 milioni di abitanti, negli ultimi tempi si sono concentrati circa il 60% dei casi di Omicron cinesi. Rispetto all’Europa si tratta di un numero molto basso di contagi, ma la Cina, per per il timore ched l’epidemia possa diffondersi nelle province più povere e nelle aree rurali, si è chiusa ugualmente a riccio.

Xi ha recentemente affermato che la Cina dovrebbe ridurre al minimo le interruzioni per l’economia per “pagare il prezzo più basso”, tutavia le autorità non hanno fermato la politica Covid zero. Di conseguenza, il paese più popoloso del mondo è isolato dal resto del mondo da più di due anni. Tutti gli arrivi internazionali sono soggetti a tre o quattro settimane di quarantena e il rilascio dei visti a stranieri diversi dai diplomatici si è quasi fermato.

Egitto, il transito del canale di Suez costerà il 15% in più

L’Egitto ha annunciato martedì che aumenterà le tasse di transito per le navi, comprese le petroliere, che passano attraverso il Canale di Suez, una delle vie d’acqua più importanti del mondo. L’Autorità del Canale ha indicato sul suo sito web che aggiungerà il 15% alle normali tariffe di transito per navi cisterna e per navi cariche di prodotti petroliferi, rispetto al 5% attuale.

Questi aumenti entreranno in vigore dal 1 maggio e potrebbero essere rivisti o annullati in seguito, a seconda dell’evoluzione delle spedizioni globali. Insomma, a Suez la catena degli approvvigionamenti globali non si blocca ma diventa più costosa, contribuendo così all’aumento globale dell’inflazione.

La guerra in Ucraina manda in tilt la Global Supply Chain

L’amministratore delegato di Volkswagen, Herbert Diess ha spiegato al Ft che una guerra prolungata in Ucraina rischia di essere “molto peggio” per l’economia europea rispetto alla pandemia a causa delle interruzioni nella catena di approvvigionamento, della scarsità di energia e dell’inflazione. L’Ucraina fornisce il 70% del gas al neon, necessario per il processo di litografia laser utilizzato per produrre semiconduttori, mentre la Russia è il principale esportatore di palladio, necessario per produrre convertitori catalitici e di nickel, un materiale importante per le batterie di auto elettriche.

Il blocco di queste materie prime avviene in due modi. Attraverso le sanzioni occidentali, che vietano le importazioni di queste materie prime per isolare Mosca, oppure per il blocco dei porti ucraini del Mar Nero, finiti sotto assedio, o chiusi per i bombardamenti. Le forniture energetiche russe sono già state interrotte dagli Stati Uniti. Lo scenario peggiore emergerebbe se le forniture energetiche russe all’Europa venissero a loro volta interrotte, il che finora non è avvenuto.

Jan Hatzius, capo economista di Goldman Sachs, stima che un divieto Ue sulle importazioni di energia dalla Russia causerebbe un contraccolpo del 2,2% al Pil e innescherebbe una recessione nell’Eurozona.

Inoltre, la guerra in Ucraina ha sicuramente accelerato la crisi mondiale del cibo, che era già in atto prima del conflitto. Un bel po’ del grano, del mais e dell’orzo mondiale è intrappolata in Russia e in Ucraina a causa della guerra, dello stop di Mosca all’export di grano e del blocco dei porti sul Mar nero, mentre una parte ancora più grande dei fertilizzanti mondiali è bloccata in Russia e Bielorussia.

Il risultato è che i prezzi globali dei prodotti alimentari e dei fertilizzanti sono saliti alle stelle, prefigurando un aumento della fame nel mondo. L’allarme lo lancia l’Onu, secondo cui questo mese l’impatto della guerra sul mercato alimentare globale potrebbe spingere da 7,6 a 13,1 milioni di persone a morire di fame.

Qualche altra cifra? Dall’invasione dell’Ucraina del mese scorso, i prezzi del grano sono aumentati del 21%, quelli dell’orzo del 33% e quelli di alcuni fertilizzanti del 40%, perché la Cina e la Russia, che sono i maggiori produttori al mondo di fertilizzanti, hanno entrambi ridotto le loro esportazioni.

Insomma, i prezzi delle materie prime sono volati dopo l’invasione della Russia. Il motivo? La maggior parte di queste materie prime non arriva in Europa ma va invece dai porti del Mar Nero a quelli del Medio Oriente e dell’Africa. Tuttavia, diversi porti sono rimasti chiusi a causa della guerra, e l’infrastruttura terrestre dell’Ucraina è stata martellata dai proiettili russi.

Risultato: le derrate ucraine e russe non sono partite a causa di queste interruzioni e i loro prezzi si sono gonfiati. E la situazione secondo gli esperti potrebbe ulteriormente deteriorarsi, poiché le aziende agricole ucraine, a causa dei bombardamenti, stanno per perdere le stagioni della semina e della raccolta.

La Fao ha già avvertito che circa il 30% delle aree coltivate in Ucraina non daranno raccolti quest’anno a causa del conflitto, mentre la capacità di export della Russia rimane poco chiara a causa delle sanzioni internazionali.

Fink (Blackrock): l’invasione metterà la parola fine alla globalizzazione

“L’invasione russa dell’Ucraina ha posto fine alla globalizzazione così come l’abbiamo vissuta negli ultimi tre decenni”. Lo ha scritto Larry Fink, il ceo di BlackRock, il più grande asset manager del mondo, nella sua lettera annuale agli azionisti, in cui non menziona alcun paese che sarebbe particolarmente danneggiato dal cambiamento, pur notando che “Messico, Brasile, Stati Uniti, o alcuni centri di produzione nel sud-est asiatico potrebbero beneficiarne”.

Secondo Fink l’invasione russa influenzerà la transizione verso un’energia più pulita. “A lungo termine, credo che i recenti eventi accelereranno il passaggio verso fonti più green”, perché i prezzi più elevati per i combustibili fossili renderanno più finanziariamente competitive le fonti rinnovabili.

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