I due mesi di polemiche sull’emergenza tra Governo e Regione Lombardia 

I due mesi di polemiche sull’emergenza tra Governo e Regione Lombardia 

08. 04. 2020 Off Di admin

Una ‘guerra‘ a colpi di dichiarazioni a mezzo stampa: il coronavirus ha scatenato, fin da quando era ancora fuori dai confini italiani, la polemica politica interna, in particolare fra il governo a guida Pd-M5s e la Lombardia a guida Lega.

Tutto inizia il 24 gennaio, quando la comunità cinese di Milano è costretta a difendersi dai pregiudizi, dovuti al fatto che il Covid-19 che stava attanagliando Wuhan, potesse arrivare in Italia sulle gambe di un cittadino asiatico. La comunità, che è anche la più folta e più importante d’Italia, assicurava, con l’appoggio del sindaco Beppe Sala, sulla buona riuscita del capodanno cinese previsto per la domenica successiva, il 2 febbraio. Ma quelle celebrazioni non avrebbero mai avuto luogo, visto che nel frattempo, il 30 gennaio, il governo decide di chiudere i voli diretti dalla Cina. Una decisione controversa, che lascia spazio alle polemiche e agli attacchi: c’è chi fa notare che con i voli indiretti i passeggeri sarebbero arrivati lo stesso.

Febbraio, Codogno e prime avvisaglie

Il 4 di febbraio le telecamere si concentrano alla scuola elementare Giusti-Assisi, dove i bimbi di famiglie cinesi da sempre sono integratissimi con i compagni italiani. La preoccupazione deriva dal fatto che il giorno prima i 3 governatori leghisti di Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, e il presidente della Provincia autonoma di Trento, avevano scritto una lettera al Ministero della Sanità chiedendo che il periodo di isolamento previsto per chi rientrava dalla Cina, anche con volo indiretto fosse applicato ai bambini che frequentano le scuole. “Non c’è nessuna volontà di contrapposizioni politiche, né tantomeno di ghettizzare: vogliamo solo dare una risposta all’ansia dei tanti genitori visto che la circolare non prevede misure in tal senso”, si chiede al governo.

L’operazione, però, viene bollata come ‘razzista’ e stigmatizzata da ben due esponenti del governo: la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, e quello degli Affari Regionali Francesco Boccia. La prima risponde: “Non ci sono motivi per escludere gli alunni dalla scuola”; il secondo aggiunge: “Le linee guida in materia di tutela della salute in Italia sono competenza dello Stato. L’organizzazione sanitaria spetta alle Regioni. Ognuno faccia il proprio lavoro”. Dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, infine un “invito i governatori del Nord a fidarsi di chi ha specifiche competenze”. 

Qualche giorno dopo, il 7 febbraio, è lo stesso governatore Fontana a provare a placare le polemiche con una passeggiata in Chinatown accompagnato dal console generale della Repubblica Popolare cinese a Milano Song Xuefeng: un segno di distensione che culmina con il classico assaggio di ravioli nel negozio take away più famoso di Milano. E’ iniziata la battaglia del raviolo: il giorno dopo è anche il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, a farsi vedere nel centro culturale cinese di via Sarpi e ad auspicare ad una voce con il console “la riapertura dei voli diretti dalla Cina a fine aprile”.

La questione coronavirus appare lontana fino alla notte del 21 febbraio, quando arriva la notizia del primo contagiato a Codogno. Passano poche ore dalle 2 di notte alla prima conferenza stampa a Palazzo Lombardia: con un’ordinanza co-firmata dal ministero della Salute e dal presidente della Regione Fontana, si mettono in isolamento circa 50 mila persone in dieci comuni del Lodigiano. L’area è ufficialmente zona rossa, presidiata in entrata e in uscita dalle forze dell’ordine. 

Nei primi giorni dell’emergenza il tampone viene effettuato su larga scala, non solo ai contatti diretti dei contagiati, ma a chiunque sia transitato dalle zone rosse. Una strategia sconsigliata dall’Oms, che fa chiarezza raccomandando il test solo ai sintomatici. Bastano pochi giorni e ha inizio una controversia sulle mascherine. Tutto ha inizio con un video del presidente della Lombardia, Attilio Fontana, che dopo aver annunciato la positività di una sua collaboratrice, si mette in quarantena e indossa una mascherina in diretta Facebook. Gli vengono mosse accuse sono di un’eccessiva spettacolarizzazione del rischio e allarmismo e lui, rivolgendosi al governo, ironizza: “Ho letto che l’uso della mascherina è il problema più grave di quelli del nostro Paese”. 

Marzo, i rapporti degenerano

Intanto parte il pressing per le riaperture: da Milano viene lanciato l’hashtag #Milanoriparte, il segretario Pd Nicola Zingaretti si fa vedere in città per un aperitivo con i giovani democratici. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, avalla la riapertura dei Musei. Il 4 marzo qualcuno prova a riaprire; il Duomo programma ingressi contingentati. In quello stesso giorno è l’assessore lombardo al Welfare, Giulio Gallera, in una sua dichiarazione, a esporre la volontà di creare una zona rossa nella Bergamasca, tra Alzano Lombardo e Nembro dove si concentra quello che appare sempre di più come un secondo focolaio. Zona rossa che però non farà mai né il governo, né la Regione.

Nella notte tra il 7 e l’8 marzo c’è una fuga di notizie sulla bozza del primo Dpcm, con restrizioni estese a tutta la Lombardia e ad altre province limitrofe. Fontana commenta: “La bozza del provvedimento del Governo, che ho ricevuto solo in serata, sembra andare nella direzione del contenimento della diffusione del virus, invitando con misure più incisive i cittadini alla prudenza. Ciò detto non posso non evidenziare che la bozza del Decreto del presidente del Consiglio è, a dir poco, ‘pasticciata’ e necessita da parte del Governo di chiarimenti”.

Una settimana dopo, di fronte alle telecamere, l’assessore Gallera mostra le mascherine arrivate dalla Protezione civile, le stesse che qualche giorno dopo il governatore campano De Luca avrebbe definito “swiffer”. La polemica sembra spegnersi, ma viene riportata alla ribalta da una conferenza stampa del ministro Boccia. L’esponente del governo si presenta in sala con una mascherina, uguale a quelle inviate alla Lombardia, appesa all’orecchio. “Queste sono le mascherine che utilizziamo normalmente. Per non toglierle agli operatori”, dice a margine il ministro. L’attacco del segretario della Lega lombarda, Paolo Grimoldi, è durissimo: “L’Italia ha oltre 4000 morti. La Lombardia piange 2550 persone. E il ministro Boccia cosa fa? Ride e fa il pagliaccio in conferenza stampa con la mascherina? Che miseria umana. Che figura miserabile”. 

Il 21 marzo il premier Conte annuncia una nuova stretta, che prevede la chiusura di tutte le attività non essenziali, con alcune eccezioni. La Lombardia, però, aveva emanato un’ordinanza più restrittiva qualche ora prima. Boccia sostiene che “il provvedimento del governo è molto più dell’ordinanza della Lombardia” e che “sarebbe stato meglio che Fontana aspettasse” le misure governative. Una decina di giorni dopo tocca a una circolare del Viminale innescare la polemica. Il documento del ministero dell’Interno apre alle passeggiate con i figli piccoli, ma in Lombardia c’è una levata di scudi. 

“Spero che i cittadini ignorino questa folle, insensata e irresponsabile circolare, che stiano a casa e organizzino giochi con i propri figli”, sbotta Gallera. Qualche ora dopo, Fontana rassicura: “In Lombardia non cambierà nulla rispetto a ciò che è contenuto nella mia ordinanza valida fino al 4 di aprile. Se esco con mio figlio senza motivazione valida e senza rispettare le distanze dagli altri, si rischia la multa”. Poco dopo arriverà un passo indietro dello stesso governo.

Aprile, le polemiche toccano il picco

Ad inizio aprile arriva una vera e propria bomba, sganciata dal governatore Fontana contro Roma: “È passato ormai quasi un mese e mezzo dall’inizio dell’epidemia e sostanzialmente da Roma stiamo ricevendo solo briciole. Se non ci fossimo dati da fare autonomamente, avremmo chiuso gli ospedali dopo due giorni. È una vergogna”.

A stretto giro arriva la risposta di Boccia: “Non ho voglia e tempo di fare polemiche. Lo Stato sta facendo di tutto. Fontana sa benissimo che mentre parliamo è atterrato l’ennesimo aereo della Guardia di Finanza”. E’ “tutto è online nel dettaglio su siti di Protezione civile e dei ministeri”. A quel punto il governatore puntualizza: “Credo a Boccia, ma devo credere anche ai dati in mio possesso e per ora prendiamo atto che ha fatto molto di più la Regione”. E il giorno dopo annuncia che la Regione metterà sul suo sito i numeri del materiale ricevuto dalla Protezione civile. 

Ieri, infine, è arrivata l’ennesima polemica sulla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano e Nembro, nella Bergamasca. Da settimane governo e Regione si rimpallano la responsabilità di non averla istituita: Conte sostiene che la Lombardia avrebbe potuto prevederla di sua iniziativa, mentre Fontana ribatte che senza l’apporto delle forze dell’ordine (che la Regione non controlla) sarebbe stato inutile istituire una zona rossa.

Lunedì 6 aprile l’ultima fiammata. Conte ha sostenuto che “se la Lombardia avesse voluto, avrebbe potuto fare di Alzano e Nembro zona rossa” perché “le Regioni non sono mai state esautorate del potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti”. Ma ha anche aggiunto “non l’ho fatto per polemica e non voglio ricercare le responsabilità di altri”. Da parte sua Fontana ha sottolineato: “Al di là del fatto che ammesso che ci sia una colpa, la colpa eventualmente è di entrambi, io non ritengo che ci siano delle colpe in questa situazione”.

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