Il balzo dell’inflazione Usa aumenta la pressione sulle decisioni della Fed e della Bce  

Il balzo dell’inflazione Usa aumenta la pressione sulle decisioni della Fed e della Bce  

10. 02. 2022 Off Di admin

AGI – L’inflazione Usa corre più delle attese e a gennaio si è impennata ai massimi da 40 anni, salendo al 7,5% annuale dal +7% di dicembre.

L’effetto sui mercati è stato quello di far lievitare il tasso sui Treasury decennali oltre il 2%. E la domanda ora è cosa farà la Fed.

Finora il mercato era pronto a scommettere su sei ritocchi del denaro dello 0,25% ciascuno nel 2022 a partire dalla prossima riunione del comitato direttivo, ma “dopo questo forte aumento dell’inflazione – commenta Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte Sim – si apre la discussione sull’ipotesi di aumento dei tassi a marzo di mezzo punto percentuale.

Tuttavia – aggiunge, non sarà una scelta facile e molto probabilmente sarà una scelta ‘last minute’ da parte della Fed. E questo perché la curva dei rendimenti si sta appiattendo.

Lo spread 5-30 anni è a solo 39 punti base, in pratica il 30 anni rende lo 0,39% in più rispetto al 5 anni: pochissimo. Dunque, se la Fed decidesse per un aumento dello 0,50% invece dello 0,25% l’appiattimento verrebbe accelerato, perché i tassi a breve salirebbero più di quelli a lungo termine. La curva quindi tenderebbe ad avvicinarsi allo zero.

E questo per i mercati sarebbe un segnale molto pericoloso. In pratica per gli operatori tutto ciò significherebbe un rischio recessione di qui a 18/24 mesi.

In altre parole, un rialzo di mezzo punto dei tassi a marzo, sarebbe un segnale forte contro l’inflazione ma anche, a causa del forte appiattimento della curva dei rendimenti, un pericoloso segnale di possibile recessione segnalato dalla curva dei tassi”. 

Secondo Cesarano, “se la Fed vuole evitare questo dovrebbe rialzare i tassi solo di un quarto di punto e accelerare la discussione su quando intende partire per ridurre il suo bilancio, che attualmente è di quasi 9.000 miliardi di dollari.

In questo modo spingerebbe al rialzo i tassi a lungo termine e potrebbe raddrizzare un po’ la curva dei rendimenti. In questo momento le percentuali di un rialzo dello 0,25% o dello 0,50% a marzo sono stimate 50 e 50 dal mercato”.

Ma anche sul numero di rialzi dei tassi per il 2022 c’è molta incertezza. Per i mercati saranno 6, ma solo ieri il presidente della Fed di Atlanta, Raphael Bostic ne ha previsti 3 o 4 aumenti, osservando che “ogni opzione è sul tavolo” quando si tratta di combattere contro l’inflazione. “Il mercato in questo momento – spiega Cesarano – è più avanti di quello che probabilmente farà la Fed.

L’inflazione negli Usa sta crescendo molto più dei salari. Basti pensare che oggi è uscito il dato sui salari reali settimanali medi, che negli Usa sono calati a gennaio del 3,1%.

Questo significa che il potere d’acquisto degli americani diminuisce con possibile impatto sulla crescita nel secondo trimestre.

E questo potrebbe cambiare l’ottica in cui si muoverà la Fed. Ancora è troppo presto per dirlo, ma i segnali ci sono tutti”.

La situazione resta per ora diversa in Europa. Il mercato monetario sconta una possibilità dell’80% di un aumento del costo del denaro di 10 punti base entro giugno e del 90% di un rialzo di 50 punti base entro fine anno.

Ma se la Fed ha espresso già da tempo la propria determinazione ad agire sui tassi, provocando un appiattimento della curva dei rendimenti, l’Eurotower ha aperto soltanto da pochissimo a un’ipotesi di rialzo ed è ancora molto esitante.

Ancora oggi il capo economista Philip Lane ha detto che l’inflazione sembra destinata a tornare al suo trend normale senza un significativo inasprimento della politica monetaria.

“Il punto – conclude Cesarano – è che mano a mano che ci avviciniamo al secondo semestre, aumentano i segnali di una crescita che rallenta. Questo significa che l’ipotesi di rialzo dei tassi della Bce, pur rimanendo sul tavolo, potrebbe non realizzarsi o solo parzialmente”.

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